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Nudi & CRUDIRitorno alla natura?Portfolio gastronomico a cura di Alberto Zonghetti illustrazioni di Eleonora CastagnaState tranquilli, ci apprestiamo a parlare di carne e pesce, non del discutibile reality nel quale ogni tanto il malcapitato zapper televisivo incappava durante le seconde serate di qualche anno addietro. Un format di bassissimo livello, tra l’altro reso ancora più anacronistico dalla censura che, generando un cortocircuito intellettivo, negava l’essenza stessa della trasmissione.Carne e pesce crudi, dicevamo: negli ultimi anni abbiamo visto la crescita esponenziale del loro consumo, il moltiplicarsi di ristoranti, franchising e locali esotici che propongono alimenti non cotti con diverse variazioni e lavorazioni.Per non parlare della loro frequente presenza all’interno delle trasmissioni televisive gastronomiche che allietano (o funestano?) i telespettatori. Una moda? Forse, ma non solo. Senza le pretese di coglierne appieno le ragioni, ci muoveremo tra letteratura, arte, gastronomia, tradizione, memorie. Non avremo una risposta definitiva, ma lo sguardo più ampio per visionare un fenomeno effettivamente complesso e sfaccettato.DAME, CAVALIERI, CENTAURI Chrétien de Troyes è stato uno scrittore e poeta francese del dodicesimo secolo, autore di molte opere, tra cui Ivain ou le chevalier au lion. La trama di tale composizione esula dalle pagine della nostra rivista, ma un episodio è rilevante. Il cavaliere Ivano, dopo aver perso l’amore della propria sposa, perde la ragione e si allontana dalla civiltà, condizione questa rappresentata dall’inoltrarsi nella foresta di Brocéliande, ove i confini tra umanità e animalità si fanno labili. Si straccia le vesti rimanendo nudo e fugge per i campi, prima di inabissarsi nella selva, dove si imbatte in un ragazzo a cui ruba arco e frecce che gli serviranno per cacciare. Egli uccide le bestie e si ciba della cacciagione “tutta cruda”, palesando così la sua bestialità, una “selvatichezza” che si oppone alla civiltà. Ivano, ad un certo punto, si imbatte nella capanna di un eremita: costui fungerà da “facilitatore” per il reinserimento del cavaliere nella società civile. In questa ottica, il progressivo rinsavimento di Ivano, che si riappropria dell’equilibrio perduto, va di pari passo con le modificazioni delle proprie abitudini alimentari.Dal crudo egli torna pian piano al cibo cotto sul fuoco, quindi elaborato, fino a desiderare un coltello, una tovaglia ei modi di una società cortese. La guarigione psicologica di Ivano passa quindi anche attraverso la cucina.Oggi viviamo in un’epoca nella quale riteniamo importante il ritorno alla natura, ma nel Medioevo questa concezione non esisteva: si pensava che l’artificio migliorasse la natura, la perfezionasse. È’ l’intervento dell’uomo, delle risorse, della tecnologia a essere buono, perché è segno che l’uomo ha saputo dominare il processo naturale e ferino. La cottura rendeva sano un prodotto, il crudo era visto come qualcosa di selvaggio, pre-culturale, animalesco.Anche gli antichi Greci ritenevano il “mangiare cotto” come parametro del vivere civile. Pensiamo ai centauri, mitologici esseri mezzi uomini e mezzi cavalli, exemplum di ferinità, caos, bestialità: il fatto che si nutrissero non di alimenti vegetali ma di carne cruda per scelta (erano infatti capaci di cuocerla), ne mette in risalto l’aspetto selvatico contrapposto all’uomo civilizzato.IL PESCE CRUDO NEL MONDO…Questa usanza alimentare è antica, diffusa soprattutto presso i popoli delle zone costiere più fredde e pescose del mondo.All’interno di questo percorso ricordiamo che è corretto includere salamoia, salatura, marinatura, affumicatura: tali procedure difatti non “cuociono” il pesce ma, come ben sappiamo, ne modificano la consistenza.Partiamo dagli inuit e dagli yupik, i due principali gruppi di eschimesi (termine che significa appunto“mangiatori di carne cruda”), che mangiano il pesce appena pescato senza tante complicazioni. Il ratfisk (trota o salmone artico fermentato 3 mesi e consumato crudo), è caratteristico della Norvegia, il gravlax in Svezia (salmone marinato con la grappa); in generale nella Scandinavia il salmone viene consumato crudo affumicato oppure in versione lax, cioè messo sotto sale e spezie per qualche giorno e tagliato a fettine sottilissime.Nell’Europa del Nord si mangia anche l’anguilla cruda affumicata, l’aringa cruda sotto marinata acida (sidro incluso) o generalmente aromatizzata con semi o rametti di aneto, semi di coriandolo o di senape, aglio, pepe, zucchero, spezie ea volte anche panna acida. In Russia è tradizionale lo storione, dal quale si ricava il pregiato caviale, nonché la siberiana e storica stroganina (pesce ghiacciato servito con olio e spezie).In Catalogna troviamo la esqueixada, insalata di baccalà crudo con pomodori e olive, o lo xato di acciughe con la salsa romesco a base di pomodori, peperoni, mandorle, pane bagnato, olio e aceto. In Francia i molluschi crudi e le deliziose ostriche della Bretagna, fino al Plateu Royal. In Turchia, in Grecia e nei Balcani abbiamo la lakerda ovvero fette di tonno giovane o sgombro crudi messe sotto sale e poi marinate nell’olio.In America latina, oltre al tiradito, piatto molto antico, il più comune esempio è il famoso ceviche (o cebiche) peruviano, ormai popolare in molti altri paesi dell’America latina che si affacciano sull’Oceano Pacifico (e direi anche nei menu di molti nostri ristoranti): piccoli pezzi di pesce, gamberetti o frutti di mare crudi vengono infatti lasciati marinare nel succo di lime o di limone insieme e ad alcune spezie come il peperoncino fresco e il coriandolo.Se parliamo dell’Oriente troviamo ricette di pesce crudo praticamente in tutti paesi dell’Asia del Sud-Est: doveroso ricordare l’antico narezushi (pesce conservato un anno crudo sotto il riso) che diede poi origine al sushi e al sashimi nel XIX secolo.In Polinesia, e in particolare a Tahiti, il pesce crudo si fa in insalata. Si usa tonno rosso o bianco, merluzzo, orata o altro, che si taglia a dadini e si condisce con peperoni, paprika, carote e cetrioli a rondelle, latte di cocco e succo di lime, mentre alle Hawai si mangia il poke, una insalata di tonno tradizionalmente condita con alghe, sale marino e lime.…E IN ITALIAFino a due-tre decenni addietro, si consumava pesce crudo solo in alcune zone della nostra Penisola, in quelle regioni nelle quali questa pratica fa parte della tradizione: in Puglia acciughe, triglie, seppioline, ricci e molluschi vengono posti vivi in un secchio di acqua di mare dal quale si attinge per gustarli dopo averli, eventualmente, spruzzati di limone. Anche in Campania il consumo di molluschi crudi, in particolare le cozze, fa parte della cultura gastronomica, così come in Liguria. Le alici marinate, chiamate “argento di mare”, sono da tempo diffuse in molte zone d’Italia.Recentemente, la contaminazione con altre culture, in particolare con quella giapponese, ha favorito il consumo e l’apprezzamento per il pesce crudo: semplicemente sfilettato sottile (carpaccio) o battuto al coltello e ricomposto in forme varie (tartare), o quello di molluschi crudi (ostriche, tartufi di mare, fasolari, arselle) e di crostacei (scampi, mazzancolle, gamberi rossi, rosa e viola, gamberetti di laguna).Così come avviene per le tendenze più attuali nel consumo del pesce d’acqua salata, anche il pesce di lago è molto apprezzato in diverse preparazioni a crudo, che valorizzano appieno la qualità del prodotto e le sfumature del suo gusto.Non posso, da buon marchigiano, non menzionare il celeberrimo chef stellato Moreno Cedroni e il suo Susci con la C. Non è solo un gioco linguistico, una trovata arguta, ma una rivisitazione italiana e personale dello schema classico della cucina nipponica, un nuovo concetto di preparazione del pesce crudo in chiave mediterranea. La ricerca del gusto umami giapponese, ad esempio, nel sushi tradizionale viene raggiunto con elementi come l’alga kombu, mentre nel Susci anche nell’abbinamento con ingredienti nostrani dalla grande presenza di glutammato, come il parmigiano e il prosciutto crudo. Il riso tradizionale è sostituito con un Carnaroli, e poi l’acidità, data da aceto, limone, pomodoro verde, la sapidità della colatura di alici e l’olio extravergine d’oliva.Bacchette o forchette? Cedroni ha disegnato una posata apposita, una lunga forchetta-bacchetta con cui mangiare, dal lato che si vuole.Il mondo del sushi giapponese è stato però solo un’ispirazione iniziale per uno chef sperimentatore come Cedroni, che ben presto sul tema del pesce crudo ha imboccato una strada e uno studio del tutto personali. Un percorso che ad ogni stagione diventa un tema portante, dalla preistoria al Rinascimento, dalle divinità vichinghe alla musica anni ’50 del Jamboree, nel quale declinare il suo Susci che parte dal Mediterraneo per esplorare ogni anno nuovi mari del gusto.LA MODA DEL SUSHI“ Milano SUSHI e coca La noche esta loca Strisce, righe e moda Vodka, keta e soda Borgo, Vogue e Plastic La noche is fantastic Dammi il tuo NIGIRI Mi piace come tiri ”Dalla canzone “Milano sushi e coca” di Myss KetaE’ necessario un chiarimento: la citazione non rispecchia affatto i miei gusti musicali ed il mio stile (eufemismo). Mi è stata presentata, complici numerosi boccali di birra, da un mio amico durante un delirante pranzo in campagna a base di barbecue e peperoncino letale.Ma questa canzone è un affresco sonoro molto efficace nel tratteggiare i caratteri di una certa “movida” meneghina costellata di eccessi e abbinata ad un cibo – esotico, costoso, piacevole – che diventa quasi uno status symbol. Il sushi è stato introdotto a Milano oltre quarant’anni fa, nei meravigliosi anni ’80, ed era all’epoca un’abitudine esclusiva, che permetteva di distinguersi dalla massa perché una cena giapponese costava molto di più rispetto ad una pizza.Dagli anni Duemila la moda del sushi, sashimi, nigiri e maki – fondata peraltro su uno stereotipo che non tiene affatto conto della complessità della gastronomia nipponica -ormai ci ha conquistati: basti pensare che fuori dal Giappone sono quasi trentamila i ristoranti nipponici.Il costo impegnativo oggi è stato parzialmente superato grazie ai tanti ristoranti che rendono la cucina giapponese molto più accessibile rispetto al passato (per non parlare degli “all you can eat” spesso gestiti da ristoratori cinesi). Ma permangono in ogni caso i locali più raffinati per palati e portafogli esigenti, persino nella media città di provincia in cui abito: gli amanti autentici di questo cibo si mescolano a quelli affamati di foto e post da condividere sui social network. Eh si, perché le preparazioni giapponesi hanno un impatto estetico decisamente suggestivo, direi molto fotogenico, perfetto equilibrio tra estetica e gusto.LA CARNE “ALLA TARTARA”Secondo la tradizione, questa preparazione avrebbe preso il nome dai Tatari, ribattezzati poi nell’occidente cristiano “Tartari”, termine che identificava in modo abbastanza generico tutte le popolazioni nomadi di stirpe turca o mongolica dell’Asia centrale.Guerrieri spietati e temibili, di piccola statura e molto agili, questi minuti soldati avevano nel cavallo la loro arma segreta, che consentiva loro rapidi spostamenti. Erano addestrati sin da bambini a stare a dorso di cavallo e persino a dormire nella scomodissima posizione a cavalcioni.Pertanto, dovendo percorrere lunghissime distanze, escogitarono un modo molto originale per conservare la carne che, diversamente, sarebbe andata a male. Prima di partire, tagliavano lunghe strisce di carne, in particolar modo di cavallo, e le sistemavano tra il suo dorso e la sella. L’incessante sobbalzare, il caldo e il sudore salato dell’animale, il tutto per ore di fila, facevano marinare e ammorbidire la carne, evitando la sua putrefazione. Da cruda poteva essere mangiata secondo necessità con l’aggiunta di bacche selvatiche e spezie, che servivano tanto per insaporire la carne quanto per mascherare il “fortissimo” odore. Era un cibarsi per cui non c’era necessità di accendere fuochi che avrebbero richiesto legna in zone brulle e, soprattutto, comportato il rischio di rendersi localizzabili dal nemico.In pratica la bistecca tartara è stato il mangiare più adeguato per armate in movimento, avendo ogni possibile vantaggio.A dare fondamento a questo metodo fu lo storico Ammiano Marcellino nel suo testo “Storie”, del IV secolo d.C, che attribuiva agli Unni questa pratica: “Si cibano di carne fatta frollare al calore delle loro gambe o sul dorso dei cavalli perché non conoscono nemmeno il fuoco”.Questo modo di consumare la carne cruda, battuta e macinata, sebbene di metodologia poco ortodossa, era totalmente inusuale ed innovativo. La specialità si fece successivamente molto popolare nella Russia zarista, ove la sua preparazione era assai frequente. Il piatto arrivò in Francia all’inizio del XIX secolo, grazie ai cuochi russi mandati in esilio a Parigi: il piatto entrò così, storicamente nella tradizione gastronomica francese che lo battezzò Tartare.Qualcuno afferma che la prima descrizione culinaria della preparazione della carne alla tartara, è documentata nel testo “Gastrosophie oder die Lehre von den Freuden der Tafel” di Friedrich Christian Eugen von Vaersts, del 1851, per indicare una preparazione di filetto di manzo, sale, pepe, tuorlo, filetto di acciuga e capperi. Un’altra storia racconta che la bistecca alla tartara, come la conosciamo oggi, proviene dalla città di Amburgo, in Germania, dove veniva servito un piatto di carne macinata stagionata e solitamente cruda, accompagnato da cipolle e briciole di pane.In ogni caso, la nostra pietanza, divenuta ormai famosa, diede origine in tutto il mondo -dai paesi scandinavi fino alla cucina sudamericana -a diverse varianti: quelle di pesce prediligono salmone, pesce spada, tonno, pregiati gamberi rossi.Nella ristorazione contemporanea, attenta più che mai all’estetica e alla presentazione del piatto, la tartare è stata riscoperta dagli chef internazionali e proposta in numerosi locali: un piatto particolare e versatile che trova indubbiamente grande apprezzamento.L’ARTE E LA CUCINA: IL CARPACCIO Giuseppe Cipriani era personaggio eclettico, geniale, dotato di grande intuizione e perspicacia. Fondò nel 1931 l’Harry’s Bar a Venezia, locale iconico frequentato dai più famosi vip e intellettuali del tempo, come ad esempio Ernest Hemingway, Sinclair Lewis e Orson Welles.Da profondo estimatore dell’arte, legò le sue più celebri invenzioni ai nomi di grandi artisti: ricordiamo il Bellini, famoso cocktail a base di prosecco e pesche bianche, dal colore rosato che ricordò a Cipriani il colore della toga di un santo in un dipinto di Giovanni Bellini, famoso pittore veneto che visse tra fine del’400 e gli inizi del ‘500.Ma l’illuminazione più geniale del Cipriani è datata 1950, per accontentare le richieste di una fedele cliente del ristorante, la contessa Amalia Nani Mocenigo, a cui il medico aveva prescritto di non mangiare carne cotta. Dopo diverse prove, propose un filetto di manzo tagliato a fettine leggere “come se fosse un prosciutto”, accompagnato da una salsa da lui stesso definita “universale” in quanto adatta sia alla carne sia al pesce. Si tratta di una maionese leggera combinata con qualche cucchiaio di Worcestershire, condimento agrodolce e un po’ piccante. Nel suo libro l’Angolo dell’Harry’s Bar scrive: “la carne da sola era un po’insipida; ma c’era una salsa molto semplice che chiamo universale per la sua adattabilità alla carne e al pesce. Ne misi una spruzzatina sul filetto.”Ma tutto si giocava sulla qualità della materia prima, come lo stesso Cipriani ribadisce: “Con il carpaccio gli imbrogli sono proibiti. Il suo segreto è nell’essere interamente svelato, nudo come mamma l’ha fatto. Per questo, non riconoscendone tante qualità, non amo la cucina francese, che predilige invece i cibi in maschera.”Le tonalità del piatto, di un rosso intenso con tinte giallastre, ricordarono al patron del locale i colori caratteristici di un famoso pittore veneziano del ‘500, Vittore Carpaccio, di cui era in corso una mostra proprio in quei giorni a Palazzo Ducale. Secondo alcuni il quadro che avrebbe ispirato Cipriani sarebbe la Predica di Santo Stefano (conservato presso il Museo del Louvre, Parigi). In ogni caso, da qui deriva il nome del piatto.Ma le connessioni gastro-artistiche non sono finite: il modo di versare la salsa sulla carne, fu definita dallo stesso Cipriani alla “Kandinsky”, ricordando uno più importanti esponenti della pittura astratta. Dopo un periodo iniziale, in cui questa pietanza a base di carne cruda ebbe un’accoglienza tiepida da parte dei clienti del suo ristorante, il successo fu tale che ben presto la ricetta fu copiata dai locali di tutto il mondo.Negli anni ’80 eanche ’90, il carpaccio era una moda invasiva, piatto simbolo degli “yuppies": era servito come antipasto o secondo piatto, con le fette di carne adagiate su un letto di radicchi misti o di onnipresente rucola, e guarnito in superficie con funghi freschi affettati, oppure carciofi o sedano. Condito con scaglie di parmigiano, olio, sale e pepe, e qualche goccia di limone che, se eccessiva, conferiva al piatto un orrendo aspetto grigio-rosato.Oggi diversi locali lo propongono in versioni minimali come la ricetta originale o decisamente creative prevedendo abbinamenti con frutta, sapori esotici od orientali.USANZE FAMILIARI E TRADIZIONI Collegate in maniera diretta o più lontana a tartare e carpaccio troviamo diverse preparazioni quasi in ogni regione d’Italia, ne citiamo solo alcune: la battuta di fassona e la carne all’albese in Piemonte; la carne salada in Trentino; la celebre salsiccia di Bra; la carna macinata dell’Emilia Romagna, servita con olio e limone. Al di là delle preparazioni rese celebri dalla storia gastronomica, il mangiare carne cruda lo possiamo ritrovare grazie alla memoria, ai nostri ricordi. Nelle campagne, parlo di qualche decennio addietro, durante la macellazione dei maiali si usava spalmare la salsiccia fresca di suino sul pane, come merenda per i ragazzi e spuntino per gli adulti: pratica che oggi potrebbe costare un infarto fulminante ad un ispettore sanitario e fruttare qualche denuncia per tentato avvelenamento. In Toscana mi dicono essere una usanza piuttosto comune, anche io ho ricordi d’infanzia legati a qualcosa di simile. In diverse zone del Meridione, richiedere l’assaggio della salsiccia cruda al macellaio è quasi un rito, il riconoscerne la qualità delle materie prime e della lavorazione, una sorta di certificato di fiducia.Vi ricordate poi la soluzione finale di mamme e nonne di fronte a situazioni di anemia o astenia? Ovviamente carne cruda, anche di equino, con olio e limone, a fettine o macinata: un vero toccasana!IL CRUDO FA BENE?Se trattato secondo le norme igienico sanitarie vigenti (che invitiamo sempre a rispettare), non fa male, anzi!Le proprietà ei benefici che ne derivano dipendono dalla tipologia di proteina. Tra i benefici del consumo di carne cruda c’è l’assimilazione di una maggiore quantità di ferro, ma anche la conservazione delle proprietà nutritive e degli elettroliti contenuti nel prodotto, e se ne guadagna anche in digeribilità. Per questo è meglio prediligere la carne cruda o al sangue.Tra le altre caratteristiche della carne cruda c’è la conservazione di una maggiore idratazione e l’integrità di vitamine come la B1, B2 e B5, che possono essere assorbite completamente dal nostro organismo.Per quanto riguarda il pesce invece, oltre al migliore assorbimento di vitamine tra cui la B1, B2, B5 e la E, si parla soprattutto di Omega 3, che non perde le sue proprietà in cottura ed è in grado quindi di dare tantissimi benefici al nostro corpo, tra cui anche diminuire gli stati d’ansia e avere un impatto positivo sull’umore.RITORNO AL PASSATO… O SGUARDO AL FUTURO?Possiamo considerare il crudo contemporaneo un ritorno alle origini? No, almeno non nel senso letterale.Oggi il crudo è diventato una vera e propria categoria del gusto. Ha smesso di essere il primo stadio dell’evoluzione gastronomica, quella che inizia con la scoperta del fuoco. Nella nostra società il crudo non è quello che viene prima del cotto, ma è diventato il diversamente cotto, un’elaborazione gastronomica autonoma, minimale, quasi futuristica, senza ferro e fuoco.Esistono tartare e carpacci con gli ingredienti più svariati: gambero, bufalo, polpo, frutti di mare, di tutto di più. Se a prima vista potrebbe sembrare un ritorno alle origini, siamo lontanissimi dal gusto preistorico: le varie lavorazioni -salse, marinature, salature, emulsioni, riduzioni, macerazioni – sostituiscono la cottura e ingentiliscono, accarezzandola, la superficie immacolata delle crudità.Ma c’è anche chi di discosta da questa dimensione. Conosco persone che mangiano cibo crudo sin da piccoli, seguendo un istinto naturale, una ricerca del gusto che li allontana dal cotto. Trovano irresistibile il richiamo, il sapore, le sensazioni del boccone crudo, che diventa un’appagante carezza di arcaica e inconsapevole ferinità, un habitus che trascende la razionalità e si intreccia con la primigenia primordialità.